Qualsiasi tipo di incontro con il Paziente, che sia per una prima visita, la presentazione di un piano di cura, o prima di una seduta, è necessario che il Professionista conosca il mondo dell’altro concedendo spazio relazionale oltre che tecnico.
Per fare questo è necessario acquisire una serie di competenze anche relazionali. In altre parole il clinico deve essere anche un buon narratore e per essere un buon narratore bisogna saper soprattutto ascoltare le storie dell’altro. Solo così la terapia assume quel valore di cui tanto si parla e ci si vanta ma che nella maggior parte dei casi rimane ferma nelle maglie della retorica di costume. Ascoltare la storia dell’altro significa comprenderne i simboli, le credenze e le convinzioni e quindi la visione che il paziente ha della sua malattia. La parodontite che viene diagnosticata, per fare un esempio, è vista e gestita dal clinico con modalità differenti rispetto al paziente che comunque dovrà gestire il dolore, le sedute, i familiari, la spesa da sostenere, e tanti altri elementi estranei al percorso puramente biomedico. Ogni paziente vive la patologia in maniera diversa perché dentro quelle sensazioni c’è il vissuto, la famiglia, le cose a cui dovrà rinunciare e le persone che dovrà affrontare. Ecco che il Professionista deve “costruire” una storia diversa per ogni paziente e raccontare nel diario clinico il percorso della malattia insieme alle sensazioni e alle emozioni. Solo così si giungerà ad una definizione completa del percorso terapeutico. La narrazione è il passaggio traversale che ogni clinico deve affrontare. Anche una fredda lista di date e sintomi deve comunque essere comunicata al paziente e questo passaggio avviene solamente attraverso il racconto all’altro. La narrazione è inevitabile. Tanto vale farla bene. Sappiamo bene che lo scambio relazionale e la condivisione rendono la comprensione molto più chiara e per farlo è necessario creare una alleanza tra clinico e paziente tale da permettere una visione nuova. E’ una pratica affascinante nella quale si cerca di avere una visione complessa della malattia che non riguarda solo il corpo ma tutti quegli effetti esterni a lui, come la famiglia, gli amici il lavoro etc..Il medico è lo studioso e deve sicuramente agire in tal senso ma deve anche tener conto di elementi esterni alla scienza e relativi al mondo del paziente. Due forze e due competenze che debbono essere fuse: Quelle del clinico (conoscenze ed esperienze scientifiche) e quelle del paziente (vissuto, esperienze, etnia, cultura). Il loro equilibrio genera quella che chiamerei “sintonia” che serve per provare l’esperienza dell’altro per entrare in relazione. Bello il termine che usa Arthur Frank (2004) per definire quanto esposto. Parla di generosità: l’atteggiamento che si origina tenendo conto dell’esperienza dell’altro insieme alla mia. La narrazione medico paziente diventa così meta-narrazione che non è il racconto di un fatto ma di una nuova esperienza, quella vissuta insieme. Gli studi sulla comunicazione medico paziente indicano purtroppo che nella maggior parte dei casi durante il colloquio il medico interrompe il paziente molto spesso e lo fa sempre quando questo cerca di parlare di se o di argomenti che non sono ritenuti rilevanti per il discorso clinico. La relazione che ne viene fuori è limitata, incompleta fatta di cause ed effetti. Quando parliamo di medicina narrativa, intendiamo invece comprendere, provare e interpretare la malattia dell’altro come sensazione.
Paolo Barelli (mentre scrivo ascolto “Half of my heart” J.Mayer